Il penultimo doge della storia di Venezia, Paolo Renier, lasciò questa vita a causa di una febbre acuta reumatica, dopo anni di salute piuttosto precaria nei quali mal sopportò soprattutto le fatiche delle estenuanti cerimonie a cui la carica lo costringeva.
Per rendere nota la notizia si attese l’inizio della Quaresima, cioè quasi 20 giorni, per non turbare l’allegria del Carnevale con il funerale di un doge, cosa impensabile in altri tempi. Lo stesso Renier aveva lucidamente descritto la misera condizione della Serenissima: “Se c’è Stato che abbia bisogno di concordia siamo noi, che non abbiamo forze, né terrestri, né marittime, né alleanze, che viviamo a sorte per accidente e viviamo nella sola idea della prudenza del governo della Repubblica veneziana.”
Il personaggio, patrizio eminente e fine intellettuale, fu figlio del suo tempo rispecchiando nella carriera pubblica le situazioni di compromesso e di corruzione in cui era precipitato il mondo politico veneziano. Se da giovane era quasi un rivoluzionario, tanto da essere allontanato a Vienna come ambasciatore, al rientro in patria lo vediamo competere in modo ben poco leale con Pietro Correr per la nomina a bailo di Costantinopoli; sui muri della città compaiono cartelli con una scritta che la dice lunga: “Chi volete? Lui (Correr) o Barabba?” In Turchia conobbe l’affascinante Margherita Dalmet, che finì per sposare in seconde nozze anche se non poté mai iscrivere il matrimonio nel libro d’oro visto le umili origini della sposa. Secondo le malignità dei contemporanei era stata ballerina e donna di facili costumi ma è certo che ebbe una grande ascendente sul futuro doge e Goethe nel suo Viaggio in Italia ha per lei parole affettuose descrivendola come una signora dai fini lineamenti e dall’aspetto austero.
Anche all’elezione a doge, avvenuta il 14 gennaio 1779, non fu certo estranea la corruzione e quel giorno il Renier parlò dalla tribuna con voce debolissima per paura che scoppiasse una sedizione popolare. Subito si trovò ad affrontare l’acuirsi della lotta fra conservatori e innovatori fra i quali i “barnabotti”, patrizi poveri che abitavano case in affitto a poco prezzo nella zona di San Barnaba. Rinnegando il proprio passato, il doge fa arrestare e mandare al confino i capi dell’opposizione anche perché aveva ben altri pensieri dovendo ricevere schiere di personaggi illustri che ancora onoravano Venezia con la loro presenza e che, nello stesso tempo, ricevevano accoglienze trionfali. Tra loro i Conti del Nord, Pio VI e Gustavo III di Svezia per il quale i Pisani dettero feste memorabili nel loro palazzo in campo S. Stefano, ora sede del Conservatorio.
Insomma, i nobili spendono e spandono ma ormai è solo l’illusione di una potenza che non c’è più nonostante le vittorie contro i pirati tunisini dell’ammiraglio Angelo Emo, comandante dell’ultima flotta di una certa consistenza nella storia della Repubblica veneta.