Molti artisti hanno dipinto Venezia, ma abbiamo voluto focalizzare la nostra attenzione sugli impressionisti poiché si ritiene che stiano stati influenzati più di altri dalle malattie articolari da cui erano affetti. Ovviamente, il campo si restringe parecchio. Con questo intento, prendiamo in considerazione tre pittori fra loro contemporanei anche se di età diverse, un pre-impressionista, un super-impressionista e un post-impressionista.
Jean-Baptiste-Camille Corot, nato nel 1796 agli albori della prima repubblica francese e morto nel 1876 agli albori della terza, durante una carriera lunga più di mezzo secolo, lavora senza sosta producendo un corpus di opere immenso e complesso, ricco di fattori innovativi. Tra i pittori di paesaggio educati alla scuola neoclassica, Corot è il solo ad alimentare l’estetica rivoluzionaria della seconda metà del XIX secolo e passare alla storia come un pioniere e il più importante precursore dell’impressionismo (1-4).
All’età di 29 anni parte per il suo primo viaggio in Italia durato tre anni, trascorsi per la maggior parte a dipingere all’aperto, soprattutto a Roma e nella campagna circostante. Va tenuto presente che la pittura è sempre stata un’arte praticata soprattutto in interno e che lavorare fuori diventa la norma solo nel momento di massimo fulgore dell’impressionismo (2). Corot, di cui Pissarro e le sorelle Morisot furono allievi, è giudicato un pittore moderno, da alcuni critici addirittura un impressionista ante litteram, proprio per l’aspetto sperimentale della sua pittura di plein air nella quale la luce e lo spazio vengono affrontati in modo nuovo, come pura sensazione visiva creata esclusivamente dal colore (1-4).
Corot visita Venezia all’inizio dell’autunno 1828, vi ritorna per un soggiorno di tre settimane nel 1834 e poi ancora nel 1843, in sintonia con una generale tendenza dei viaggiatori colti a rivalutare altre località italiane oltre a Roma, come Turner e Ruskin che avevano eletto proprio Venezia la loro capitale d’Italia (1). Del 1834 è questa Veduta del Campo della Carità nella quale il rigore formale di ispirazione neoclassica si sposa con una sorprendente armonia di atmosfera e di luce (Figura 1).

Figura 1. Jean- Baptiste Camille Corot, Veduta del Campo della Carità verso la Salute, 1834
La biografia di Corot non è molto ricca di dati esterni a quelli strettamente artistici ma è documentato che abbia sofferto di una malattia reumatologica (MR) e che nel suo dipinto Ragazza gitana con mandolino, la mano nodosa della zingara sia una delle prime rappresentazioni di un’artrite (Figura 2).

Figura 2. Jean- Baptiste Camille Corot, Ragazza Gitana con mandolino, 1870 – 1875.
Uno studio pubblicato dal JAMA nel 1990 (5) suggerisce che le rappresentazioni delle MR nell’arte ci aiutino a comprenderne l’evoluzione e forse la stessa eziologia. Gli esperti hanno notato nella Gitana delle deformità alle mani caratteristiche di un’artrite. Non sappiamo con certezza se l’artrite è stata osservata nella modella o se la sua immagine sia stata realizzata a partire dalla malattia dell’autore, la gotta. Ma, è verosimile l’ipotesi che Corot abbia voluto rappresentare la sua stessa mano e che quindi l’opera possa essere letta anche da questa prospettiva.
La mano destra della Zingara presenta iperlassità della prima e della seconda interfalangea prossimale, deformità nodose al quinto, quarto e terzo dito e tofi al polso. Corot manifesta la gotta nel 1866, con episodi ricorrenti durante gli anni successivi che gli impediscono di continuare a viaggiare e lo confinano nello studio di Parigi dove realizza vari ritratti fra cui la Zingara (5).
L’amico e biografo Alfred Robaut ha fornito dettagli attendibili: nel giugno 1866 Corot ha “une crise de goutte très violente”che dura parecchi mesi e, dopo un periodo di remissione, una ripresa acuta dei dolori nel 1871 preoccupa il circolo dei suoi amici che non lo vedono più ai soliti café degli artisti (1). Alcune fotografie successive al 1865 mostrano tumefazioni alle articolazioni del secondo dito della mano sinistra compatibili con tofi. Tornando alla mano della Gitana, se le deformità fossero bilaterali, si potrebbero interpretare come un’artrite reumatoide (AR) ma, essendo monolaterali, potrebbero meglio riflettere un’artrite psoriasica o una gotta. Per concludere, appare estremamente probabile che Corot, ammalato di gotta, abbia voluto rappresentare sulla tela un tema con cui aveva familiarità per esperienza vissuta. L’artrite si fa arte.
Il grande regista Jean Renoir, nel suo libro dedicato al padre (Renoir mio padre) ricorda come il più celebrato maestro dell’impressionismo, dopo aver fatto il decoratore di porcellane, a vent’anni decide di diventare un “artista pittore” ispirandosi certamente anche a Corot (6). In quel momento è in voga la scuola dei paesaggisti di Fontainebleau per i quali Renoir prova sincera ammirazione: “Sia Rousseau che Daubigny mi lasciavano stupefatto. Ma compresi subito che il grande artista era Corot. Quello non tramonterà mai…” (2, 3)
Nel 1864 è Monet a portare a Barbizon, una località ai bordi della foresta, il gruppo degli amici fra i quali Renoir che finora aveva lavorato solo nel chiuso di un atelier. Artisti del calibro di Rousseau, Diaz, Corot, Daubigny dipingevano en plein air circondati da uno stuolo di aspiranti pittori, alcuni non sempre all’altezza (2-4). Afferma Renoir: “Corot era sempre circondato da una corte di imbecilli e non volevo trovarmici in mezzo. Lo amavo da lontano”.
Nel 1915 il figlio Jean viene ferito in guerra ed ha la fortuna di trascorrere la convalescenza nella casa parigina del padre. Dalle loro conversazioni emerge il senso della straordinaria esperienza artistica ed umana del pittore, ormai costretto da anni su una sedia a rotelle a causa di una violenta artrite reumatoide (6). Incredibilmente più i dolori si facevano intollerabili e con più foga dipingeva, tanto che nell’ultimo anno di vita crea Le bagnanti che egli stesso considera un punto d’arrivo della sua lunga ricerca.
Nel piccolo ed eterogeneo gruppo di nuovi talenti che, agli inizi degli anni sessanta dell’ottocento sconcerta l’ambiente artistico ufficiale suscitando addirittura l’ilarità del pubblico, troviamo il determinato Renoir che, senza farsi scoraggiare da un decennio di delusioni ed insuccessi, è il maggiore promotore della prima mostra di questi ribelli che si tiene in Boulevard des Capucines nello studio messo a disposizione dal fotografo Nadar (2-4). L’etichetta di Impressionismo con cui si inizia ad appellare il gruppo è un esito secondario e inaspettato dell’esposizione, frutto della fantasia di Louis Leroy cui si deve una dura recensione della mostra che trae spunto dall’opera di Claude Monet Impressione. Sole che sorge. Il tono satirico che pervade l’articolo dal titolo “Mostra degli Impressionisti” rispecchia perfettamente l’umore dei visitatori che frequentavano la mostra soprattutto per ridere. Secondo Renoir l’unico risultato di questa mostra disastrosa è l’etichetta “impressionismo” che egli inizialmente mal sopporta ma che con il tempo accetterà, comprendendo che pur involontariamente la parola ne esprime bene l’essenza (2-4). Il grande successo arriverà per Renoir solo agli inizi degli anni novanta grazie alla retrospettiva allestita dall’amico gallerista Durand-Ruel fino alla consacrazione della Legion d’onore nel 1899 (6).
Per la sua maturazione artistica una tappa fondamentale è certamente il viaggio in Italia del 1881. Renoir sente il bisogno di vedere i quadri dei grandi maestri del passato sotto i cieli dei paesi dove essi erano vissuti, Raffaello a Roma, le pitture di Pompei a Napoli ma soprattutto Veronese, Tiepolo, Tiziano e Carpaccio a Venezia. Anch’egli rimane stregato, oltre che dall’arte, dal fascino peculiare della Laguna che restituisce in alcuni dipinti dove riesce a cogliere l’incredibile identità di aria, acqua e luce di quei luoghi, come in Venise brouillard (Figura 3) (2).

Figura 3. Pierre-Auguste Renoir, Venise brouillard, 1881
Questa esperienza suscita profonde emozioni (l’inconveniente dell’Italia è che è troppo bella), ma anche molti dubbi. Impressionista convinto del primato del colore, ora gli sembra di non possedere abbastanza la tecnica del disegno e le opere successive rivelano l’accoglimento della lezione dei maestri italiani (2, 3).
Una decina di anni dopo, verso i cinquant’anni, Renoir comincia a soffrire di un’AR già ben visibile in una foto del 1896. Proprio a causa della progressione della malattia, nel 1899, su consiglio dei medici, si trasferisce a Cagnes-Sur-Mer in Costa Azzurra confidando nei benefici influssi del clima mediterraneo (6). Ma è un’illusione, a ogni episodio la situazione si aggravava, da un giorno all’altro un bastone non è più sufficiente per camminare e le mani si deformano inesorabilmente. Nel 1901 tutte le sue speranze sono riposte nelle cure termali, prima ad Aix-les-Bains poi a Bourbonne-les-Bains ma, a parte la passione per le belle vasche di marmo anti-scivolo dello stabilimento risalenti al tempo di Madame de Sévigné, anche lei malata reumatica, non ottiene alcun miglioramento (6). La minaccia di una paralisi totale però va di pari passo con un aumento vertiginoso della sua attività. L’amico fraterno Albert André ha parlato spesso di una specie di fioritura artistica coincidente con il progredire della malattia, ogni vittoria artistica si accompagnava ad una disfatta fisica, ad un dolore in più. Nel 1911 Renoir è definitivamente costretto su una sedia a rotelle e anche le braccia cominciano a deformarsi facendogli temere il giorno in cui non avrebbe più potuto tenere il pennello. Invece dalla sua tavolozza nascono i colori più straordinari, i contrasti più audaci; come se l’amore di Renoir per la bellezza della vita, di cui non poteva più godere fisicamente, traesse energia proprio dalla sofferenza (2, 3, 4, 6). Esistono diverse fotografie dell’artista nei suoi ultimi anni che danno l’idea della sua spaventosa magrezza, del suo corpo quasi pietrificato, le mani rattrappite che non potevano afferrare più nulla. Si è scritto che il pennello gli venisse legato alla mano ma il figlio precisa che non è del tutto esatto: poiché la pelle si era fatta talmente delicata che il contatto con il legno del manico gli procurava ferite, si faceva mettere un pezzo di tela nel cavo della mano e poi, con le dita deformate “abbrancava” il pennello più che tenerlo (6). Ma il braccio gli rimane saldo fino all’ultimo respiro, gli occhi di una sconvolgente precisione e la volontà indomabile.
Per poter continuare a dipingere si inventa due marchingegni geniali: un piccolo studio a vetri completamente apribili con la luce regolabile da un sistema di tendine e un cavalletto a cilindri azionato da una manovella che permetteva di avere nella giusta posizione la parte del soggetto su cui lavorare (6).
Al pittore americano Walter Pach che gli chiede cosa fosse per lui l’arte, risponde: “Deve essere indescrivibile e inimitabile… L’opera d’arte deve afferrarti, avvolgerti, trasportarti. È il modo in cui l’artista esprime la sua passione, è la corrente che sgorga da lui e ti trascina nella sua passione.” (2)
Questa passione non doveva mai lasciare Renoir, anzi cresce con gli anni così come la felicità di dipingere fino all’ultimo giorno malgrado decenni di spaventose sofferenze fisiche. Muore quasi ottantenne alla fine del 1919 lasciando un’eredità universale.
A Parigi alcuni artisti respinti ai saloni ufficiali fondano il “Groupe des Artistes Indepéndants” che inaugura la sua prima esposizione il 15 maggio 1884 in un edificio nei giardini delle Tuileries (2-4). Una mostra molto eterogenea in cui compare anche Georges Seurat le cui Bagnanti ad Asnières, realizzato a grandi pennellate piatte usando i soli quattro colori fondamentali non mescolati fra loro, affascina talmente un altro giovane artista a sua volta presente con due opere, Paul Signac, da spingerlo ad abbracciare le medesime ricerche tecniche (7). L’unico degli impressionisti storici a gettarsi immediatamente in questa nuova avventura artistica è Guillaumin che presenta i due futuri maestri del divisionismo a Pissarro. Anch’egli ben presto individua nelle loro sperimentazioni quell’elemento costruttivo invano cercato nell’impressionismo e finisce per convertirsi allo stile pointilliste. Quando la monumentale tela ricoperta da un tappeto di macchioline di colore, Una domenica pomeriggio nell’isola della Grande Jatte di Seurat, viene esposta all’ottava e ultima mostra degli Impressionisti, nel maggio 1886, ottiene immediato successo, un succès de scandal direbbero i francesi, e l’autore è riconosciuto come il leader di quell’avanguardia artistica che il geniale critico Felix Fénéon battezza come neo-impressionismo (2, 7).
Il pubblico in effetti stava cominciando a stancarsi degli impressionisti puri che cercavano di catturare gli aspetti fuggevoli della luce usando il pennello in modo spontaneo e impulsivo accontentandosi della semplice osservazione all’aria aperta.
La ricerca di un fondamento scientifico dell’arte spinge gli innovatori ad applicare in modo creativo le recenti teorie della fusione ottica dei colori di Chevreul e Maxwell e a cambiare il loro modo di dipingere tipicamente contraddistinto da trame fitte di puntini.
Al gruppo dei pittori neo-impressionisti si unisce anche Henri-Edmond Cross, fin da giovane sofferente di artrite, che soggiorna a Venezia e la dipinge con grande efficacia nello stile puntinista (7).
Francese di Douai, Henri-Edmond Delacroix, che adotta lo pseudonimo Cross per non essere confuso con il celebre Eugène, ha sofferto certamente di una malattia reumatologica, probabilmente AR, e per questo si trasferisce, su consiglio del suo medico, nell’ottobre 1891 da Parigi a Cabasson e poi a Saint-Clair sulla Costa Azzurra dove ha modo di lavorare spesso a fianco dell’amico Signac che abitava nella vicina Saint-Tropez (7).
Questo spostamento a sud ha profondamente influenzato la sua arte: i colori vivaci, luminosi e gai del Mediterraneo lo spingono a usare la pennellata divisa, piccoli trattini e punti di colore, e le gradazioni del cosiddetto “impressionismo scientifico”. Le sue opere divisioniste più ortodosse datano dal 1891 fino alla metà del decennio quando cerca un adattamento più libero e personale del pointillisme. Servendosi del colore come espressione del sentimento, cerca di svincolarsi dalle costrizioni connesse alla teoria: i punti e i tratti puntinati vengono sostituiti da pennellate più lunghe estese in tutte le direzioni. A loro volta sostituite, qualche anno dopo, da tocchi simili a tessere di un mosaico come in Ponte di San Trovaso (Venezia) realizzato fra il 1903 e il 1905 (Figura 4).

Figura 4. Henri-Edmond Cross, Ponte San Trovaso (Venezia), 1903-1905.
Durante il suo breve ma artisticamente intenso soggiorno veneziano dal 7 luglio al 12 agosto 1903, Cross realizza molti schizzi ad acquerello e disegni rimanendo realmente incantato dalla città: “Venezia è come la vita…in tutte le sue sfumature, dall’austera solennità alla frivolezza più superficiale. E l’architettura meravigliosamente varia e vivace è come un’estensione verso il cielo di questa vita intensa, della pienezza di vita prodotta da questi canali con i loro riflessi infiniti” (7, 8).
Come si vede, per Cross Venezia è una città assolutamente viva e vivace, che gli dà gioia nello starci e nel dipingerla, in netta controtendenza rispetto al mito decadente reso celebre dal contemporaneo Thomas Mann.
Quando ritorna in Provenza, Cross utilizza gli schizzi eseguiti a Venezia come base per una serie di tele ad olio fra le quali Il Ponte di San Trovaso esposto in una mostra che riscuote grande successo alla parigina Galerie Druet nel 1905 (7, 8). L’artista, che muore a soli 54 anni per un cancro probabilmente correlato all’artrite, ha svolto un ruolo decisivo nella diffusione del Pointillisme non fosse altro per aver introdotto a tale tecnica l’amico Henri Matisse, suo vicino di casa per un’estate (2-4, 6, 7). In seguito Matisse avrebbe superato i confini di quello stile, divenendo l’esponente di maggior spicco della corrente dei Fauves e uno dei maggiori artisti del novecento. Ma questa è un’altra storia.
Bibliografia
(1) Galassi P. Corot in Italia. Torino: Bollati Boringheri, 1994.
(2) Rewald J. La storia dell’impressionismo. Milano: Johan & Levi, 2019.
(3) Guasti A, Neri F. Storia degli impressionisti. Santarcangelo di Romagna: Dix, 2016.
(4) Daverio P. Il secolo lungo della modernità. Milano: Rizzoli, 2016.
(5) Panush RB, Caldwell JR, Panush RS. Corot’s “Gout” and “Gipsy” Girl. JAMA 1990; 264: 1136-8.
(6) Renoir J. Renoir, mio padre. Milano: Adelphi, 2015.
(7) Heenk L, Kreijn L, ed. Seurat, Van Gogh, Mondrian. Il post-impressionismo in Europa. Catalogo di mostra. Verona: Ed 24 Ore Cultura, 2015.
(8) Le denier carnet d’H.-E. Cross (III). Bulletin de la vie artistique 1922; 13 (1luglio): 302- 304.